
Essere ambiverti, l’ambiguità come dimensione umana
Personalità è un termine che adoperiamo per indicare un’organizzazione delle caratteristiche comportamentali, di pensiero e di sentimenti di un individuo che sono caratterizzate da un certo grado di unità, coerenza e progettualità nel tentativo di adattarsi all’ambiente ed agli altri. Descrive e sussume la poliedricità del nostro camminare sulla terra.
Diversi psicologi hanno tentato di scremare queste caratteristiche all’osso, nella ricerca di un set stabile di variabili da poter calcolare statisticamente per predire comportamenti e operare comparazioni in una data popolazione. Dopo le analisi multivariate introdotte da Cattell con il suo modello dei 16 fattori, Eysenck ha proposto un modello ancora più semplice, con 3 dimensioni, rivelatosi incredibilmente utile nello studio della personalità sia in grandi campioni di individui sani che di persone con una psicopatologia.
Queste dimensioni sono l’estroversione/introversione, la stabilità/instabilità e lo psicoticismo. Mentre il mondo della psicologia ancora combatte sull’effettivo valore clinico dell’ultimo, estroversione ed introversione sono divenuti termini della cultura pop, rivelandosi precisi criteri esaminativi della personalità e resistendo alle ricerche nel campo delle influenze culturali e nelle determinazione temperamentale, il comportamento geneticamente determinato.
Tuttavia, una cospicua fetta di individui sembra ora ribellarsi a questa categorizzazione dicotomica con l’espressione di un Sè che nel suo rapportarsi al mondo, in continuo cambiamento, si trova ad essere fenomelogicamente ambiguo. Quasi come se l’espressione di uno dei due poli fosse essenzialmente determinato dall’ambiente circostante e dalle relazioni intraprese. Ma se fosse più giusto il contrario? Se noi fossimo ambigui in quanto umani? Se l’essere ambiverti fosse la reale ‘Condition humaine’?
La mitologia latina, fortunatamente, ci mette a disposizone una figura particolare: Giano Bifronte, Dio degli Inizi. Giano è sempre rappresentato con una doppia testa, una rivolta verso ciò che l’altra non può vedere. “Esso rappresenta la condizione dell’uomo come essere che incarna il senso del doppio. Essere da una parte e da un’altra. Vedere il passato e vedere il futuro.” – dice Anna Cantagallo – ”Restare bambini e crescere inevitabilmente. In questo gioco di assoluti che si contrastano, l’ambiguità tra l’essere introverto o estroverso non si presenta dunque più come una stranezza rispetto al progetto umano originario, ma come l’unica sincera espressione del nostro rapportarci al mondo e agli altri.”
Da un punto di vista neurobiologico, il livello di bisogno di socializzazione è in gran parte determinato dal neuroormone responsabile per il nostro umore positivo, la dopamina. Tutti noi disponiamo di diversi livelli di stimolazione indotta da dopamina a livello cerebrale, in particolare nell’area della neocorteccia, responsabile per le funzioni cognitive di alto livello quali la produzione di linguaggio e pensiero conscio. Gli individui che hanno alti livelli di stimolazione nella neocorteccia sono tendenzialmente introversi, come se il loro cervello desse loro già abbastanza stimoli per sentirsi bene. Viceversa, le persone che vivono una stimolazione bassa della neo-corteccia, tendono ad essere estroverse e cercare all’esterno di sè quegli stimoli che di cui il cervello abbisogna.
Come ben sappiamo però, noi tutti abbiamo dei momenti in cui abbiamo bisogno di essere attorniati da persone e dei momenti in cui l’unico compagno che può starci vicino siamo noi stessi. Queste modulazioni di desiderio sociale potrebbero rappresentare la nostra ambiversione nei confronti del mondo. Essere più chiusi rispetto alle nuove esperienze, a contratti commerciali di un nuovo tipo, ad alleanze manageriali che sembrano pericolose o ci spaventano è giustificabile in un certo periodo se ciò che abbiamo ci basta. Nel modo opposto, se siamo insoddisfatti degli stimoli che già possediamo, cercheremo una via d’uscita tramite un’estroversione al mondo.
Robin Sharma lo insegna: un buon leader deve essere un pò tutto. Deve essere estroverso ma dedicarsi a sè, deve essere responsabile ma rule-breaker, ambizioso ma umile, con i piedi per terra e con i sogni che traboccano dalle tasche. Dev’essere, semplicemente, ambiverto. Solo così riuscirà a garantire alla sua azienda quella giusta dose di follia e razionalità, di creatività sotto il proprio controllo di cui ha bisogno per farsi riconoscere e per cercare eventuali partner.
“Le aziende che dimostrano di saper tirare l’elastico tra l’aprirsi in maniera assoluta e restare ancorate alle loro radici operano meglio sul mercato. Lasciano il porto per esperire porti mai visti, ma la trebisonda non la perdono mai perchè hanno un faro da cui sono partite. Siate come il leader che vorreste avere.” conclude Anna Cantagallo.