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Anna Cantagallo: ADHD può avere un’influenza positiva nell’attività sportiva?

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ADHD, i tratti caratterizzanti. “Luigi ha 8 anni e frequenta il terzo anno della scuola primaria. È stato segnalato dalle insegnanti perché in classe mostra di avere difficoltà. In particolare si presenta irrequieto e facilmente distraibile. Più volte nel corso della lezione necessita di alzarsi e anche se sta seduto ha bisogno di muovere costantemente le mani e le gambe. Inoltre fa fatica a rispettare i turni della conversazione e ha bisogno di giocare con gli oggetti che ha di fronte e di farli cadere a terra”.

È questo uno dei tanti casi di cui potremmo portare la testimonianza, bambini che soffrono di disturbo da deficit di attenzione dell’iperattività o meglio conosciuto come ADHD. Esso consiste in un disturbo del neuro sviluppo che coinvolge tutti i circuiti cerebrali legati all’autocontrollo e all’inibizione.

La dott.ssa Anna Cantagallo, neurologa e fisiatra, esplicita: “Le manifestazioni cliniche dell’ADHD consistono nella difficoltà di prestare attenzione, avere comportamenti impulsivi e/o un livello di attività motoria molto accentuato. Solitamente i primi sintomi si manifestano in età scolare ed è molto più frequente nei maschi, con un rapporto di 3 a 1”. Vediamo, dunque, una netta prevalenza del disturbo nel genere maschile rispetto a quello femminile. ADHD

Alcuni studi condotti recentemente rispetto a questa patologia dimostrano che esiste una relazione tra ADHD e sport. Prendiamo in considerazione una Review pubblicata dal British Journal of Sport Medicine, la quale evince come questo disturbo sia diffuso tra gli atleti professionisti e come alcuni sport, più di altri, giovino agli stessi atleti e alle loro performance.

Questa ricerca nello specifico si è basata su uno studio assiduo e sistematico del 2018 che ingloba 17 studi, nei quali dal 4 all’ 8% circa degli atleti presenta ADHD. Inoltre, lo studio ha dimostrato che gli atleti con maggiori potenzialità – soprattutto nel baseball e nel basket – potrebbero trarre qualche vantaggio dalla loro impulsività. A tal proposito la dott.ssa Anna Cantagallo sostiene “di per sé lo sport è uno sfogo fisico per un’intensa emozione, quindi come riportato dallo studio si può supporre che vi sia una riduzione dei sintomi legati all’ADHD”.

Anna Cantagallo, infine, evince: “Lo studio riportato è molto interessante in quanto dimostra come questa patologia potrebbe realmente avere degli effetti positivi sulle prestazioni sportive, in particolare in quelle discipline che richiedono una decisione reattiva e movimenti rapidi”.

 


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Cyber-bullismo. Tutto quello che c’è da sapere sulla psicologia del bullo

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Cyber-bullismo. Con il termine cyber-bullismo vengono intesi quei comportamenti messi in atto da individui o gruppi attraverso i media elettronici o digitali che inviano messaggi ostili e aggressivi in modo ripetuto al fine di arrecare danno o disagio ad altri.

Il cyber-bullismo può essere molto vario e viene infatti diviso nelle seguenti categorie:

  • Harassment (molestie): spedizione ripetuta di messaggi o e-mail insultanti mirati ad offendere il destinatario.
  • Trickery (inganno): ottenere la fiducia di qualcuno con l’inganno entrandoci prima in confidenza, scambiando informazioni intime e/o private per poi pubblicare o condividere con altri le informazioni confidate via mezzi elettronici.
  • Happyslapping (schiaffo allegro): registrazione video durante la quale la vittima subisce o insulti o umiliazioni verbali o violenza fisica (calci e pugni) che viene in seguito pubblicata su internet all’insaputa della vittima e visualizzata da altri utenti.
  • Exclusion (esclusione): escludere deliberatamente una persona da un gruppo di amici online, da una chat o da un gioco interattivo, per provocare in essa un sentimento di emarginazione.
  • Denigration (distribuzione): invio di messaggi o pubblicazione di commenti crudeli, offensivi calunniosi per danneggiare gratuitamente e con cattiveria la reputazione di una persona, via e-mail, messaggistica istantanea, gruppi su social network
  • Flaming (fiamma): consiste nella spedizione di messaggi online violenti, volgari e provocatori mirati a suscitare battaglie verbali in rete tra due o più utenti.
  • Cyberstalking: persecuzioni, attraverso la tecnologia, consistenti in molestie e denigrazioni ripetute e minacciose mirate a incutere paura, dare fastidio sino a commettere atti di aggressione più violenti anche di tipo fisico.
  • Impersonation (spacciarsi per qualcun’altro): creazione di profili utente fasulli col nome della vittima al fine di mandare messaggi offensivi a terzi a nome suo.

Per quanto bullismo e cyber-bullismo possano sembrare uguali, si possono identificare 3 principali differenze. La prima è riconducibile ad una caratteristica intrinseca dei dispositivi elettronici attraverso i quali si verifica la molestia: l’anonimato. Gli studenti che non praticano bullismo con i propri pari nella vita reale potrebbero farlo in rete grazie alla possibilità di anonimato sfociando quindi nel cyber-bullismo. Oltre all’anonimato una seconda differenza che distingue il bullismo dal cyber-bullismo è collegata alla scarsità di controllo nei media elettronici. Mentre dunque il bullismo tradizionale può essere visto, controllato e contenuto da educatori, insegnanti e familiari, nel cyber-bullismo le molestie sono”invisibili e nascoste”, ma non per questo meno dolorose. Un’ultima generale differenza riguarda il momento in cui la vittima subisce l’atto violento, verbale o fisico che sia. Infatti nel bullismo tradizionale i comportamenti aggressivi avvengono solitamente durante le ore di scuola e cessano nel momento in cui il bambino torna a casa. Nel cyber-bullismo le molestie sono molto più pervasive e possono “colpire” la persona a qualsiasi ora del giorno attraverso la semplice ricezione di e-mail e di messaggi al cellulare, dispositivo che di questi tempi, è sempre a nostra portata di mano.

In una review, Tokunaga (2010) ha posto in analisi molti degli studi che si sono occupati di indagare le caratteristiche delle vittime del cyber-bullismo. Da questo lavoro è emerso che le cyber-vittime hanno una moltitudine di problematiche simili alle vittime del bullismo. Le vittime del cyber-bullismo hanno una più bassa autostima, un più alto livello di depressione e  generalmente possono provare da più “semplici” stati di angoscia fino a più gravi problemi psicosociali che dipendono dalla frequenza, dalla durata e dalla gravità dei cyber-attacchi subiti. Vi è infatti una minor probabilità di riportare problematiche a lungo termine se gli episodi di cyber-bullismo si verificano raramente, mentre gravi forme di cyber-bullismo – sia per la durata che per il peso delle molestie stesse – sono legate a percentuali più elevate di problematiche psicologiche e sociali.

Le vittime di cyber-bullismo riportano molto spesso problemi nel rendimento scolastico e soprattutto nelle relazioni con i compagni per via della preoccupazione dovuta all’esperienza di essere delle vittime della rete. Tra le altre conseguenze problematiche nelle vittime del cyber-bullismo che sono state statisticamente significative nello studio abbiamo: marcata ansia sociale, stress emotivo, rabbia e tristezza, possibili problemi sociali quali distacco, ostilità e delinquenza.

Per quanto concerne il genere, nel cyber-bullismo non sembra giocare un ruolo importante come è invece nel bullismo tradizionale in sui si rileva una predominanza del genere maschile sia di bulli che di vittime. Per quanto riguarda invece l’età si trovano delle differenze: la fascia che risulta più colpita sembra essere quella tra i 12 e 14 anni.

In risposta al cyber-bullismo, bambini e ragazzi spesso consultano amici o provvedono da soli ad affrontare gli aggressori. Soltanto in rari casi, le vittime raccontano ai genitori di quanto accaduto o semplicemente cercano di ignorare il problema.

Va ricordato però che non solo le vittime ma anche gli aggressori hanno un’alta probabilità di esperire un’ampia gamma di problemi psicologici come sintomi depressivi, ideazioni suicidarie e tentativi di suicidio.

Per spiegare il comportamento dei bulli alcuni autori (Doane, Pearson e Kelley, 2014) hanno utilizzato la teoria del comportamento pianificato (TPB dall’inglese Theory of Planned Behavior),ideata da IcekAjzen nel 1991, che consiste nella percezione che un soggetto ha di poter mettere in atto un comportamento voluto e che tale controllo possa influire sull’intenzione di attuare un dato comportamento e sull’effettivo comportamento stesso. Se l’atteggiamento, come scritto dall’autore, riguarda in che modo in senso positivo o negativo la persona valuta i comportamenti, da Olweus (1993) è stato riportato che i bulli hanno spesso un atteggiamento più positivo verso la violenza e un atteggiamento di bassa empatia verso le vittime.  Gli autori, al fine di studiare questi atteggiamenti, hanno somministrato a dei partecipanti la “Cyberbullying Experiences Survey” ideata da Doane,Kelley, Chiang e Padilla nel 2013, che va ad esaminare diversi stili di cyber-bullismo attraverso 20 items su 4 argomenti principali:

  • inganno (ad es. “Hai mai finto di essere qualcun altro mentre parlavi con qualcuno per via elettronica?”);
  • umiliazioni pubbliche (ad es. “Hai mai postato una foto imbarazzante di qualcuno per via elettronica dove altre persone potevano vederlo?”);
  • contatto non ricercato (ad es. “Hai mai mandato una foto pornografica non desiderata a qualcuno elettronicamente?”).
  • cattiveria (ad es. “Hai mai mandato un messaggio volgare per via elettronica a qualcuno?”);

I risultati hanno mostrato che una bassa empatia verso le vittime di cyber-bullismo predice un atteggiamento più favorevole verso il compimento di atti di cyber-bullismo, che un atteggiamento più favorevole nei confronti del cyber-bullismo predice intenzioni più elevate perla messa in atto del cyber-bullismo, e che elevate intenzioni di mettere in atto comportamenti di cyber-bullismo predicono un più frequente compimento di comportamenti di cyber-bullismo.


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La scrittura. Strumento efficace per il benessere dell’anima e del corpo

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La scrittura. Dal punto di vista psicologico, la scrittura fornisce all’uomo la convinzione secondo la quale attraverso di questa può lasciare un segno visibile, garantendo, in un certo senso, la sopravvivenza dei suoi pensieri dentro al foglio di carta, oltre che la possibilità di comunicare concretamente con un’altra persona, anche quando questa si trova a distanze fisiche considerevoli.

Al giorno d’oggi il bisogno di scrivere si mostra ancor più forte del passato, grazie agli ormai diffusissimi social network che permettono di esprimere pubblicamente pensieri ed opinioni, così che Elisabetta Bucciarelli arriva a dire che “mai abbiamo scritto così tanto” (Buccairelli, 2014). Non importa se quello che viene scritto verrà poi pubblicato e acquisterà fama o meno: l’importante buttar giù i pensieri su un foglio, che fa bene da un punto di vista psicofisico, come spiega la psicologa e psicoterapeuta Michela Pavanetto.scrittura

L’aiuto che la scrittura fornisce alla persona non riguarda solo il benessere individuale a livello generico, ma anche specificatamente situazioni di forte stress o traumi: in questi casi, la scrittura può aiutare ad elaborare la sofferenza, attraverso la risoluzione di traumi radicati nel soggetto, aiutandolo inoltre a fronteggiare e gestire vecchi e nuovi sensi di colpa. Elaborando gli eventi traumatici che si sono fossilizzarsi all’interno del cervello come “nodi”, si evita che questi continuino a mantenere le peculiarità emotive e cognitive di trauma.

La dott.ssa Anna Cantagallo suggerisce come “attraverso la scrittura, chi scrive cerca di fronteggiare le possibili difficoltà di gestione delle emozioni, poiché il pensiero viene liberato e trasposto in parole scritte, specialmente per quei pensieri che spesso nascondiamo anche a noi stessi”.

Cosi, la scrittura terapeutica si inserisce come nuova disciplina introspettiva che permette di realizzare una sorta di “autocura” attraverso la sua componente antidepressiva e antistress. I benefici ottenuti tramite questa pratica sono soprattutto psicologici, ma si è potuto vedere quanto la scrittura agisca positivamente sul sistema immunitario attraverso la stimolazione delle difese: attraverso un esperimento su alcuni studenti, lo psicologo James Pennebaker notò che nel gruppo di studenti a cui era stato richiesto di scrivere almeno 20 minuti al giorno per 4 giorni la settimana, rispetto al gruppo di controllo, è stato evidenziato un migliore funzionamento del sistema immunitario.

La scrittura, oltre che rappresentare una “autonoma” pratica terapeutica può essere utilizzata come supporto nella pratica clinica, in particolar modo se affiancata alla terapia farmacologica, grazie al valido aiuto psicologico che offre al paziente, inserendosi così in quella è stata definita come medicina narrativa, ideata da Rita Charon, medico statunitense.

La terapia della scrittura che è stata identificata come maggiormente efficace è quella autobiografica, grazie alla quale il paziente può in un certo modo “auto-analizzarsi” arrivando così a nuove elaborazioni di pensieri intimi e nascosti, collegando ciò che è conscio è ciò che è inconscio. Inoltre, la modalità di scrittura maggiormente suggerita è quella che prevede la scrittura a mano, non quella digitale ormai diffusa, in quanto scrivere a mano rallenta i pensieri e riesce a diventare una forma di meditazione quando viene effettuata tutti i giorni; il corsivo viene preferito allo stampatello, poiché quest’ultimo viene più associato come simile alla scrittura digitale, distante dalla persona, mentre il corsivo sembra riesca ad far esercitare l’autocontrollo e viene indicato infatti anche come trattamento per la dislessia.

Se pensi di essere in difficoltà o in un periodo in cui non riesci a gestire tutto da solo, BrainCare ti aspetta con un team di professionisti pronti a realizzare per te proposte personalizzate che possano aiutarti.


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sport

Sport. Praticare alcuni tipi di sport aiuta ad alleviare l’ansia

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Sport. Spesso lo sport è stato studiato in un’ottica di “cura” per le più diffuse psicopatologie, tra cui il disturbo d’ansia. In particolare, gli studi hanno cercato di capire quali sport facciano la differenza rispetto ad altri nell’esercitare un’azione ansiolitica: una revisione di 16 studi pubblicata da Sports Medicine ha dimostrato che gli sport con “allenamento contro resistenza” (ovvero esercizi di potenza come il sollevamento pesi) riescano a diminuire lo stato d’ansia in coloro che li praticano. In quest’ottica, chi pratica questi sport soffrirebbe meno di disturbi d’ansia.sport

Brett Gordon, autore dello studio sopracitato, istruttore di educazione fisica e ricercatore in tema di sport presso l’Università di Limerick in Irlanda, indica che  “l’allenamento regolare con esercizi di potenza, (resistance exercise training, RET) ha significativamente ridotto l’ansia nei soggetti sani e anche in quelli con una patologia fisica o mentale, e la dimensione dell’effetto di queste riduzioni è paragonabile a quella dei trattamenti di prima linea, quali farmaci e psicoterapia” (http://www.popsci.it/gli-sport-di-resistenza-sono-ansiolitici.html).

Non è possibile, ad oggi, indicare se questa tipologia sia l’unica efficace nel trattamento dei disturbi d’ansia, né se sia migliore o peggiore di altre; ciò che risulta però importante è che grazie a questi studi vi sono nuove prospettive per gli approcci terapeutici al disturbo d’ansia, molto spesso considerato dai pazienti come “insuperabile”, dato il grado di difficoltà che produce nel condurre la vita di ogni giorno.

Come la dott.ssa Anna Cantagallo ci indica, “il trattamento del disturbo d’ansia prevede un approccio che non sia limitato alla prescrizione di farmaci ansiolitici, che spesso portano ad assuefazione dopo brevi periodi; insieme ad una terapia psicologica, l’incontro con le neuroscienze ha permesso di considerare altre tipologie di approcci, che riconsiderano l’utilizzo di nuove strategie, quali ad esempio gli sport che dimostrano una particolare efficacia per queste specifiche condizioni”.

Se i sintomi ansiosi non si risolvono e hai voglia di provare dei nuovi approcci terapeutici da affiancare ai classici, in BrainCare puoi trovare un team di professionisti che metteranno le loro competenze ed il loro tempo a disposizione per proporti nuove soluzioni su misura per te.


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Orientamento spaziale. I deficit delle informazioni spaziali nella vecchiaia

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Orientamento spaziale. Le neuroscienze si sono molto dedicate al senso dell’orientamento spaziale e grazie ad un vasto insieme di ricerche comportamentali e di neuroimaging basate sull’uomo, ci hanno fornito ad oggi una comprensione dettagliata del circuito implicato nella navigazione del cervello scoprendo nuovi sistemi neuronali coinvolti nell’elaborazione delle informazioni spaziali.

La scienza ci dice infatti con certezza che delle cellule che si trovano nella parte inferiore dell’Ippocampo (nella corteccia entorinale) riescono a determinare rispettivamente  la nostra posizione nello spazio e permettono di muoverci in ambienti complessi. Queste cellule da gps biologico, sono state chiamate cellule di posizionamento e cellule griglia.

Ma come sono state scoperte?

Nel 1971 O’Keefe, ricercatore dell’University College di Londra, ha individuato nell’ippocampo del cervello di alcuni ratti liberi di muoversi in una stanza, una cellula nervosa che si attivava quando l’animale si trova in una posizione precisa. Altre cellule si attivavano poi quando si trovava in altri punti della stanza. Queste “cellule di posizionamento” non registrano soltanto un input visivo,ma tracciano una vera e propria mappa “interna” dello spazio circostante.

I coniugi norvegesi May-Britt e Edvard Mosehanno nel 2005 hanno invece scoperto un sistema di cellule nervose, chiamate successivamente “griglia”, che consentono di definire il percorso eil posizionamento preciso nello spazio. Hanno infatti notato che alcune cellule nella corteccia entorinale dei ratti si attivavano quando questi passavano da un punto all’altro dello spazio andando a costruire uno schema di coordinate spaziali che permetteva di guidare il cammino degli animali.orientamento spaziale

Recentemente i ricercatori del German Center for Neurodegenerative Diseases (DZNE) è sorto però un dubbio: “E se un deficit dell’orientamento spaziale potesse essere un predittore valido per la diagnosi di demenza o di altre malattie neurodegenerative?” Per rispondervi hanno compiuto una revisione che (http://www.cell.com/neuron/pdf/S0896-6273(17)30561-5.pdf ) che è stata pubblicata su Neuron, che ha voluto illustrare le evidenze che sono emerse da vari studi su roditori, primati non umani e umani che studiavano come l’invecchiamento cognitivo influenzi i calcoli di navigazione. Incredibilmente hanno capito che deficit in queste aree possono manifestarsi molto prima di altri (come memoria e apprendimento) e riuscire a misurarli potrebbe essere un modo per smascherare prima l’insorgere delle malattie neurodegenerative. “Possono volerci 10 anni dall’inizio della patologia perché emergano risultati anomali nei test cognitivi standard disponibili oggi, 10 anni persi per quanto riguarda il trattamento, soprattutto se dovesse arrivare una terapia efficace- spiega Thomas Wolbers, tra gli autori della ricerca- è il punto in cui la diagnostica basata sulla navigazione potrebbe contribuire, riducendo questo spazio temporale”. Una batteria di test molto specifici analoghi a quelli per la memoria e l’apprendimento potrebbe essere presto disponibile, ma nel frattempo il consiglio degli studiosi è mantenere allenate le aree del cervello che ci consentono di orientarci, specialmente in un’epoca in cui il Gps sembra la soluzione per arrivare in ogni luogo.

Utilizzi molto questa abilità nel tuo lavoro o nei tuoi hobbies preferiti? Sappiamo che per scacchisti, architetti, geometri, etc. le abilità visuo-spaziali sono pane quotidiano e un deficit in queste aree potrebbe essere un brutto colpo che l’età può riservare. In BrainCare offriamo dei test per la valutazione delle abilità visuo-spaziali e dei programmi di stimolazione/riabilitazione sia per persone sane che vogliono migliorare questa abilità che per persone che hanno subito una lesione nelle aree che abbiamo citato nell’articolo. Vieni a trovarci, troveremo la soluzione su misura per te!


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Cancro. Quando la diagnosi aumenta il rischio di suicidio

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Cancro. La comunicazione di una diagnosi di cancro è sempre un evento molto stressante. Può, infatti, aumentare il rischio di suicidio di chi la riceve, nonostante il miglioramento dei tassi di sopravvivenza per molte neoplasie. Un gruppo di ricercatori dello University College of London ha esaminato i dati relativi a oltre 4,7 milioni di pazienti britannici che hanno ricevuto diagnosi di cancro tra il 1995 e il 2015. Dall’analisi dei dati raccolti si evince che il rischio di suicidio è più elevato del 10% rispetto a quello della popolazione generale sana. Quasi 2.500 pazienti con tumore si sono suicidati. Queste morti secondo gli autori, potevano essere evitate. In particolar modo sono stati esaminati i diversi step successivi alla diagnosi data al paziente, facendo attenzione all’aspetto temporale successivo alla diagnosi e alla sua comunicazione.   I dati analizzati riportano che il rischio di suicidio raggiunge il picco nei primi sei mesi dopo la diagnosi del cancro. Quest’ultima, infatti, si rivela fonte di ingente stress e pensieri negativi relativi all’incertezza della vita futura.cancro

Sono stati, inoltre, individuati quattro tumori risultati essere maggiormente influenti sulla psiche del paziente, tanto da condurlo al suicidio. Il dato più elevato riguarda i pazienti con mesotelioma, i quali hanno una probabilità di morire per suicidio 4,5 volte più alta. Seguono i pazienti con tumore del pancreas (3,9), quelli con tumore dell’esofago (2,7), tumore del polmone (2,6), mentre la diagnosi di tumore dello stomaco è risultata legata a un rischio di suicidio 2,2 volte maggiore rispetto alla popolazione generale. Nell’attività clinica, nel caso del paziente oncologico, ha un’importanza notevole il monitoraggio costante dell’umore del paziente. Al contempo è fondamentale un adeguato supporto psicologico, servizio indispensabile non solo per il paziente ma anche per il caregiver. Il trattamento psicologico permette, infatti, al paziente e ai suoi familiari di acquisire gli strumenti necessari per gestire il disagio indotto dalla malattia ed eventuali comportamenti di evitamento relativi a programmi terapeutici o controlli. Se ti trovi in un momento di difficoltà come quello sopracitato e vorresti apprendere tecniche per gestire le emozioni negative tue o dei tuoi familiari, modificare pensieri disfunzionali ed interiorizzare modalità efficaci di problem-solving….  contattaci!

Avremo il piacere di ascoltarti e troveremo assieme la soluzione che maggiormente si addice al tuo momento di difficoltà, soluzione che potrai prospettare anche alle persone a te care.

 


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sclerosi multipla

Sclerosi Multipla. Attività di resistenza per rallentare la malattia

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Sclerosi Multipla. La Sclerosi Multipla (MS) è una patologia neurodegenerativa che causa nel tempo una diminuzione del volume cerebrale dovuta  alla morte dei neuroni. Nello specifico questa malattia causa lesioni alla mielina, guaina che ricopre gli assoni e che permette una più rapida ed efficiente trasmissione dei segnali tra neuroni. A seguito di un danneggiamento alla mielina, i segnali nel sistema nervoso centrale risultano alterati o danneggiati. Ovviamente queste alterazioni si manifestano con una varietà di sintomi che dipendono dalla sede delle lesioni. Le cause della Sclerosi Multipla non sono ancora state comprese a fondo ma si pensa sia una malattia autoimmune: il sistema immunitario attacca i tessuti del proprio organismo scambiandoli per “corpi estranei”.   Queste aggressioni danneggiano il rivestimento mielinico e innescano un meccanismo infiammatorio che porta alla formazione di una cicatrice simile ad una placca (motivo per cui la sclerosi multipla in passato veniva chiamata anche “sclerosi a placche”).sclerosi multipla Ad oggi solo in Italia ne sono colpite 114mila persone con ben 3400 nuovi malati all’anno: questi numeri ci fanno capire che si tratta di un’emergenza sanitaria che costa al nostro Stato 5 miliardi di euro all’anno! In tutto il mondo, infatti, si è compresa la necessità di andare a fondo su questa malattia prestandole le dovute attenzioni sia a livello sanitario, che a livello politico, con lo scopo di tutelare i malati e di trovare nuovi farmaci o cure efficaci.

A tal proposito è stato recentemente portato a termine uno studio (http://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/1352458517722645 ) dai ricercatori dell’Università di Aarhus, in Danimarca, che aveva lo scopo di approfondire i benefici che può portare una costante attività fisica di resistenza sulla degenerazione neuronale. La letteratura infatti suggerisce che attività progressive di resistenza possono efficacemente contrastare l’atrofia cerebrale. Per valutare a quanto ammontavano questi effetti il team ha condotto un trial randomizzato per un totale di 24 settimane su 35 malati di Sclerosi Multipla. Al gruppo sperimentale composto da 18 soggetti hanno fatto fare degli esercizi auto-guidati di attività fisica di resistenza mentre al gruppo di controllo hanno lasciato proseguire il loro stile di vita abituale. I malati venivano sottoposti periodicamente a test clinici per valutare la progressione della malattia oltre a risonanza magnetica (MRI) per valutare carico delle lesioni, volume cerebrale globale, percentuale di cambiamento del volume del cervello e spessore corticale.

I risultati hanno mostrato che  la scala dello stato di disabilità, il carico delle lesioni e il volume globale del cervello non sono stati diversi tra i gruppi  ma sorprendentemente sono state rilevate delle differenze significative nella percentuale di cambiamento del volume del cervello. Risultava infatti un maggiore spessore corticale in ben 19 delle 74 regioni corticali studiate. Nella riproduzione della ricerca è stato confermato che le differenze tra i due gruppi dello spessore delle aree cerebrali riguardava ben 4 aree cerebrali: giro cingolare anteriore, polo temporale, solco orbitale e solco temporale inferiore.

Le attività progressive di resistenza hanno quindi dimostrato indurre un aumento dello spessore corticale: si deduce quindi che non solo hanno un effetto neuro protettivo, ma addirittura neuro rigenerativo nei pazienti affetti da Sclerosi Multipla Recidivante-Remittente (la forma più diffusa di questa patologia).

Anche te soffri di SM e hai voglia di provare nuove cure? Vieni in BrainCare! Potrai seguire un percorso fisioterapico specializzato che può migliorare il decorso della tua malattia oltre che un sostegno psicologico e una consulenza neurologica e fisiatrica. Inoltre se vuoi scoprire se hai predisposizione genetica allo sviluppo della malattia,  nella nostra clinica offriamo l’analisi genomica  per la mappatura del DNA. Ti aspettiamo!


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I dieci benefici che porta fare esercizio fisico

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Esercizio fisico. Un costante esercizio fisico migliore l’efficienza del corpo e agisce positivamente sull’attività mentale coordinando e concentrando le funzioni corporee secondo tecniche espressive che coinvolgono il corpo e la mente di un individuo.Sono moltissimi i reali benefici che l’attività fisica ha su tutta la nostra persona, al sonno al livello di energia e persino alla memoria e all’umore.esercizio fisico

Un allenamento regolare è la chiave per una vita più sana, equilibrata e anche più serena

  1. L’insonnia è un disturbo del sonno che si manifesta attraverso l’incapacità di dormire, anche quando l’organismo ne ha il reale bisogno. L’esercizio fisico può aiutare chi soffre di questo fastidioso problema. L’allenamento  fisico comporta un leggero aumento del calore corporeo, che poi si “raffredda” nelle ore successive. Questo costante calo della temperatura corporea interna segnala al cervello che è ora di riposarsi. L’attività fisica deve però essere regolare, come evidenzia una ricerca della Northwestern University di Chicago, negli Usa, pubblicata sulla rivista Journal of Clinical Sleep Medicine. L’esercizio fisico ha sì una funzione importante per combattere l’insonnia, ma bisogna avere un po’ di pazienza. Non basta quindi impegnarsi per 45 minuti in una corsa oppure a fare esercizi sul tappetino, per avere effetti positivi è necessario svolgere un allenamento regolare.
  2. L’esercizio fisico ha effetti positivi sull’umore di chi lo pratica, alzando i livelli di felicità. Questo è dovuto al fatto che il movimento stimola la produzione di sostanze chimiche come la serotonina, la dopamina e la noradrenalina, neurotrasmettitori che hanno il compito di mediare il piacere nel cervello.Sono gli esperti dell’University of Cambridge in Inghilterra che rivelano questa teoria, grazie ai risultati ottenuti da uno studio durato 17 mesi ed effettuato su oltre diecimila individui. L’esperimento si è svolto con l’utilizzo di una app per cellulare attraverso una duplice funzione. In primo luogo l’obiettivo era di misurare i dati fisici dell’individuo durante l’attività (respirazione, battiti ecc…), e in seguito di analizzare l’umore delle persone grazie ad un questionario, nel quale i soggetti dovevano specificare cosa avessero fatto nei 15 minuti precedenti al questionario stesso. I risultati hanno dimostrato che gli individui che nel quarto d’ora precedente al questionario avevano svolto attività fisica, registravano dei livelli di felicità sensibilmente più elevati rispetto a chi non aveva svolto alcun tipo di esercizio fisico. I soggetti interessati hanno poi riferito che, nel lungo termine, l’attività fisica ha migliorato il grado di soddisfazione generale per la loro vita.
  3. Un errore che molti adulti commettono è quello di impegnarsi in attività di cardio e allo stesso tempo di allontanarsi dall’allenamento di resistenza e dalla costruzione muscolare. È fondamentale includere nella vostra routine di fitness anche l’allenamento di forza e lo stretching. Il sollevamento pesi, gli esercizi con il peso corporeo e i movimenti di yoga, aiutano a migliorare la forza e la massa muscolare, aspetto molto importante con l’avanzare dell’età. L’aumento dei muscoli aiuta inoltre il tuo corpo a bruciare calorie in modo più efficiente e più a lungo anche quando l’allenamento è finito.
  4. Ciò che si rivela invece fondamentale per aumentare la flessibilità del proprio corpo è lo stretching, praticandolo regolarmente diventeranno più facile e agevoli anche le attività di tutti i giorni.
  5. L’attività fisica rappresenta un ottimo rimedio naturale per la prevenzione delle malattie cardiache. Il cuore infatti è uno di quegli organi che risente dei benefici dell’attività fisica, è proprio grazie all’allenamento che possiamo svilupparlo, renderlo più forte, più resistente e meno sensibile agli effetti dell’invecchiamento.Anche per le persone che già sono a conoscenza di soffrire di malattie cardiache uno sport adeguato, praticato regolarmente, può permettere una riabilitazione cardiaca secondaria ridando fiducia anche nelle proprie capacità.Come affermano studi condotti dai ricercatori della Divisione di Cardiologia Riabilitativa Fondazione Salvatore Maugeri, il movimento produce effetti positivi indiretti e diretti.Tra i benefici indiretti ci sono: il rafforzamento della muscolatura scheletrica e i cambiamenti su alcuni stili di vita scorretti, in particolare la riduzione dello stress.Mentre i benefici diretti che l’attività fisica ha sul sistema cardiovascolare includono la riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa a riposo e da sforzo e un incremento ella contrattilità cardiaca.
  6. I ricercatori Keita Kamijo e Tyuji Abe, della Waseda University di Tokyo, hanno dimostrato che l’attività aerobica ha effetti positivi sulla capacità di pianificazione, mantenimento dell’attenzione e capacità di destreggiarsi tra diverse attività.Nella ricerca sono stati arruolati 28 uomini e hanno proposto a loro di svolgere alcuni compiti che sfruttano la memoria lavorativa. I soggetti coinvolti  hanno usato la loro memoria di lavoro prima, subito dopo e 30 minuti dopo tre momenti di test eseguiti in tre giorni diversi. I periodi di test, assegnati in modo casuale, hanno avuto una durata di circa 25 minuti l’uno. In uno, gli uomini si esercitavano con una cyclette. Nel secondo hanno svolto un compito cognitivo stando seduti su una bicicletta ma senza pedalare e infine nel terzo hanno unito le cose svolgendo un compito cognitivo mentre pedalavano.Gli effetti positivi dell’esercizio in cui era richiesto solo di pedalare si sono visti 30 minuti dopo, mentre quello misto, fisico e cognitivo, ha fatto registrare un affaticamento cognitivo. Dall’evidenza dei risultati gli esperti consigliano di limitarsi all’esercizio fisico senza aggiungere sforzi cognitivi. Sovraccaricarsi con troppi compiti può stancare il cervello.
  7. Parlando ancora di memoria, alcuni ricercatori hanno dimostrato i benefici dell’attività fisica sulla memoria ad alta interferenza. Nella ricerca condotta dalla McMaster University, in Canada, pubblicata su Journal of Neuroscience gli studiosi hanno preso in esame 95 adulti sani. Una parte di loro, il gruppo sperimentale, ha svolto esercizio fisico per sei  settimane; nel gruppo di controllo invece gli adulti hanno condotto una vita sedentaria. Al termine delle sei settimane risultavano migliorate le prestazioni di memoria ad alta interferenza dei soggetti del gruppo sperimentale rispetto a quelli del gruppo di controllo.
  8. Quando siamo stanchi ed indeboliti, l’ultima cosa che vogliamo fare è esercizio fisico. I ricercatori dell’Università della Georgia in una ricerca pubblicata sulla rivista Psychotherapy and Psychosomatics ha invece dimostrato che l’esercizio regolare a bassa intensità può aiutare a rafforzare i livelli di energia, soprattutto nelle persone che soffrono di affaticamento. Lo studio ha coinvolto 36 volontari che non erano soliti esercitarsi e che lamentavano stanchezza persistente. Ad un gruppo sono stati prescritti 20 minuti di esercizio aerobico di moderata intensità per tre volte la settimana. Il secondo gruppo si è impegnato in un esercizio aerobico a bassa intensità per lo stesso periodo di tempo, mentre un terzo gruppo di controllo non ha fatto nessun tipo si esercizio fisico. Entrambi i gruppi di esercizi hanno avuto un aumento del 20% dei livelli di energia entro la fine dello studio, rispetto al gruppo di controllo, anche se un esercizio più intenso non è il modo migliore per ridurre la fatica, infatti Il gruppo a bassa intensità ha riportato un calo del 65% nei sentimenti di affaticamento, rispetto a un calo del 49% nel gruppo che fa un esercizio più intenso.
  9. Anche la riduzione del rischio di morte prematura è tra gli importanti benefici dell’esercizio fisico. Un ampio studio australiano apparso sulla rivista Jama Internal Medicine che ha seguito per sei anni oltre 200mila persone di età compresa tra i 45 e i 75 anni. Analizzando i dati raccolti nella ricerca è emerso che aumentare l’intensità dell’allenamento favorisce la longevità, e questo anche dopo aver considerato altri possibili fattori come l’età, il livello di educazione, le abitudini ecc.. Inoltre, il rischio di morte prematura diminuisce all’aumentare dell’attività intensa svolta. Quando questa costituisce un terzo dell’allenamento complessivo, la riduzione del rischio è del 9%, mentre è del 13% quando l’allenamento intenso supera quella soglia.
  10. Esercitarsi nei giorni di lavoro rende più produttivi, felici e meno vulnerabili allo stress. Questo è quanto rivelato dai ricercatori dell’Università di Bristol in una ricerca pubblicata sull’International Journal of Workplace Health Management. I risultati statistici parlano chiaro: nei giorni di allenamento, l’umore delle persone migliorava significativamente dopo l’esercizio. Il consiglio degli esperti è quello di abituarsi ad una pausa attiva nella propria giornata lavorativa.

Se vuoi migliorare il tuo stato di benessere generale e sviluppare un programma di allenamento quotidiano che sia ad hoc per la tua persona ed integrato in una consulenza medico-psicologica completa, puoi rivolgerti a noi BrainCare, dove potrai trovare l’aiuto che cerchi grazie ai programmi personalizzati messi a punto dal nostro team di professionisti.


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Sport. Lo sport aiuta la psiche: un contributo alla fibromialgia

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Sport. Oggi diversi studi sembrano prendere in considerazione lo sport in quanto protagonista nei suoi possibili contributi in malattie come la fibromialgia: in particolare, nel trattamento di questa malattia negli adolescenti è stato ripreso una tipologia di addestramento neuromuscolare dalla medicina dello sport, con risultati che mostrano una riduzione della disabilità ed un aumento della sicurezza in questi pazienti. Come viene fatto: il programma FIT Teens unisce la psicoterapia e l’esercizio a metodi innovativi che vengono solitamente impiegati per prevenire gli infortuni (come le valutazioni biomeccaniche, il motion capture tridimensionale, la realtà virtuale).sport

Tale programma è stato inserito in uno studio che ha avuto inizio lo scorso anno, condotto da Susmita Kashikar Zuck del Cincinnati Children’s Hospital, con 400 partecipanti i cui risultati parziali (in attesa dei definitivi del 2022) sono già positivi: i partecipanti dichiarano di fidarsi maggiormente del proprio corpo, obiettivo importante per questa tipologia di pazienti che perde subito tale fiducia a causa della malattia (http://www.popsci.it/canali-medicina/dolore/fibromialgia-un-aiuto-dalla-medicina-dello-sport.html?tck=FBE29D9A-E25C-4F97-9CFB-94C494019C03).

Le attività fisiche proposte agli adolescenti variano da moderate a vigorose in base alle loro scelte e i ragazzi vengono poi istruiti sul modo di inserire queste attività all’interno del loro programma in maniera graduale. L’allenamento neuromuscolare, invece, riguarda la forza centrale, il controllo della postura, la ripresa dallo stress e la coordinazione. Dal punto di vista psicologico vengono impegnati in skill gestionali che comprendono la distrazione cognitivo comportamentale, la gestione dello stress, il rilassamento muscolare, la scansione delle attività.

Quello in cui era importante intervenire per tali pazienti riguardava proprio la concezione del movimento, conseguentemente dell’attività fisica. Spesso, i pazienti con fibromialgia sviluppano paura di muoversi e associano il dolore all’attività fisica. Cosi lo studio integra la terapia cognitivo-comportamentale e l’esercizio neuromuscolare, facendo sì che venga migliorata la competenza nel movimento minimizzando il dolore muscolare a seguito dell’esercizio.

Dunque, come affermato dalla Dott.ssa Anna Cantagallo, “il contributo da parte dello sport alla psiche è da rivalutare, senza considerare questo rapporto come unilaterale; aprirsi a queste nuove prospettive può rappresentare un importante punto di inizio sia per la ricerca sperimentale di nuove prospettive nello studio della psiche sia nella pratica clinica per nuove opportunità di trattamento”.

Se pensi di trovarti in queste condizioni e stai riscontrando queste difficioltà, contattaci in BrainCare e formuleremo insieme un programma individualizzato su misura per te!


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XXV Giornata mondiale dell’Alzheimer: l’importanza della prevenzione

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Malattia. La Giornata Mondiale della malattia di Alzheimer fu istituita nel 1994 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Grazie a questa ricorrenza ogni anno in tutto il mondo si riuniscono malati, familiari, e associazioni Alzheimer con l’intento di creare una coscienza pubblica sui problemi provocati da questa malattia. Sindrome che comprende un complesso di caratteristiche comuni, l’Alzheimer si contraddistingue per il deterioramento della memoria e di altre funzioni cognitive. Sono diversi i farmaci sul mercato in grado di intervenire sulla malattia rallentando l’evoluzione dei sintomi, però purtroppo la loro efficacia non  raggiunge tutte le persone coinvolte. Nonostante gli enormi sforzi per trovare un trattamento efficace, gli attuali interventi farmacologici sono limitati a pochi farmaci che alleviano i sintomi ma non rallentano i processi patologici sottostanti, per questo motivo è importante concentrarsi sulla prevenzione.malattia Sono stati pubblicati online (The Lancet Neurology), i risultati dello studio europeo LipiDiDiet (http://www.dottnet.it/articolo/22567/alzheimer-nutrienti-per-contrastare-la-malattia/ tag=10440380055&tkg=2&anc=e8a370bba58b9e1291eb8ff074e8c12d&news=299&cnt=4) che dimostra come l’assunzione una volta al giorno di una miscela di nutrienti permetta una significativa stabilizzazione delle performance cognitive e funzionali e una riduzione dell’atrofia cerebrale nelle persone con Alzheimer in fase iniziale. Questa miscela di nutrienti comprende acidi grassi essenziali, vitamine e altri nutrienti. Il progetto europeo LipiDiDiet affronta l’ impatto dei lipidi nutrizionali sulle prestazioni neuronali e cognitive nell’invecchiamento, nella malattia di Alzheimer e nella demenza vascolare . Questo si basa su precedenti osservazioni che i lipidi modificano il rischio di demenza. Soprattutto alcuni lipidi omega-3 sembrano abbassare il rischio di Alzheimer. Inoltre, come già evidenziato da un articolo dell’American Psychological Association (http://www.apa.org/monitor/2018/03/inbrief.aspx) l’esercizio svolge un ruolo importante nell’approccio alla demenza. L’esercizio  motorio aiuta infatti a preservare la memoria e altre funzioni rallentando il deterioramento dell’ippocampo. Ben 14 clinical trials hanno analizzato la RMN cerebrale di 737 persone (di età media di 66) per verificare gli effetti dell’esercizio aerobico sul volume dell’ ippocampo. I partecipanti furono divisi in 3 gruppi: soggetti sani, pazienti con Mild Cognitive Impairment (MCI) e pazienti con malattie mentali, comprese la depressione e la  schizofrenia. In tutti i gruppi l’esercizio aerobico era associato con un buon mantenimento del volume dell’ippocampo di sinistra, (coinvolto nella memoria e in altre funzioni cognitive), ma non di entrambi.  Per questo motivo la Dottoressa Anna Cantagallo insieme allo staff di esperiti di BrainCare consiglia e promuove una regolare attività fisica accompagnata da una corretta alimentazione.


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