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Sport. Praticare alcuni tipi di sport aiuta ad alleviare l’ansia

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Sport. Spesso lo sport è stato studiato in un’ottica di “cura” per le più diffuse psicopatologie, tra cui il disturbo d’ansia. In particolare, gli studi hanno cercato di capire quali sport facciano la differenza rispetto ad altri nell’esercitare un’azione ansiolitica: una revisione di 16 studi pubblicata da Sports Medicine ha dimostrato che gli sport con “allenamento contro resistenza” (ovvero esercizi di potenza come il sollevamento pesi) riescano a diminuire lo stato d’ansia in coloro che li praticano. In quest’ottica, chi pratica questi sport soffrirebbe meno di disturbi d’ansia.sport

Brett Gordon, autore dello studio sopracitato, istruttore di educazione fisica e ricercatore in tema di sport presso l’Università di Limerick in Irlanda, indica che  “l’allenamento regolare con esercizi di potenza, (resistance exercise training, RET) ha significativamente ridotto l’ansia nei soggetti sani e anche in quelli con una patologia fisica o mentale, e la dimensione dell’effetto di queste riduzioni è paragonabile a quella dei trattamenti di prima linea, quali farmaci e psicoterapia” (http://www.popsci.it/gli-sport-di-resistenza-sono-ansiolitici.html).

Non è possibile, ad oggi, indicare se questa tipologia sia l’unica efficace nel trattamento dei disturbi d’ansia, né se sia migliore o peggiore di altre; ciò che risulta però importante è che grazie a questi studi vi sono nuove prospettive per gli approcci terapeutici al disturbo d’ansia, molto spesso considerato dai pazienti come “insuperabile”, dato il grado di difficoltà che produce nel condurre la vita di ogni giorno.

Come la dott.ssa Anna Cantagallo ci indica, “il trattamento del disturbo d’ansia prevede un approccio che non sia limitato alla prescrizione di farmaci ansiolitici, che spesso portano ad assuefazione dopo brevi periodi; insieme ad una terapia psicologica, l’incontro con le neuroscienze ha permesso di considerare altre tipologie di approcci, che riconsiderano l’utilizzo di nuove strategie, quali ad esempio gli sport che dimostrano una particolare efficacia per queste specifiche condizioni”.

Se i sintomi ansiosi non si risolvono e hai voglia di provare dei nuovi approcci terapeutici da affiancare ai classici, in BrainCare puoi trovare un team di professionisti che metteranno le loro competenze ed il loro tempo a disposizione per proporti nuove soluzioni su misura per te.


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Ansia – può aumentare la percezione del dolore. Riducendo l’ansia riusciamo anche a ridurre il dolore?

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Ansia – può aumentare la percezione del dolore. Riducendo l’ansia riusciamo anche a ridurre il dolore?

Ansia – Anna Cantagallo racconta che la correlazione bidirezionale tra dolore fisico e ansia clinicamente significativa è stata ampiamente documentata.

Perché bidirezionale? Ci sono sia casi di disturbi d’ansia in cui il paziente è soggetto a livelli particolarmente elevati di dolore, e sia casi di persone affette da condizioni mediche di dolore cronico che sperimentano ansia.

“Per quanto riguarda le psicopatologie – illustra Anna Cantagallo – le ricerche si sono basate prevalentemente sul disturbo di panico (PD) e sul disturbo post traumatico da stress (PTSD), che risultano essere spesso accompagnati da condizioni di dolore cronico.

Kuch e i suoi colleghi riscontrarono nei pazienti con PD un’incidenza particolarmente elevata di dolori localizzati soprattutto a livello lombare, alle spalle e alla testa.

In condizioni mediche caratterizzate da un dolore fisico acuto sembra che sia la paura del dolore stesso ad aumentare la percezione dell’effettiva sofferenza provata.

Questo è stato dimostrato anche dal fatto che ridurre l’ansia farmacologicamente riduca anche il dolore fisico causato da patologie organiche.”

Ansia – può aumentare la percezione del dolore. Riducendo l’ansia riusciamo anche a ridurre il dolore?

Se l’ansia amplifica il dolore, il dolore che effetto ha sull’ansia?

“Mostoufi e i suoi colleghi, in uno studio del 2014, rilevano la differenza d’intensità nella percezione del dolore tra soggetti con PTSD, soggetti con altri disturbi d’ansia, e un gruppo di controllo. Essi vengono sottoposti al cold pressor task in cui gli viene chiesto di immergere la mano in un contenitore con acqua gelida.

I risultati mostrano una diminuita sensibilità allo stimolo nocicettivo nei partecipanti affetti da PTSD rispetto agli altri due gruppi.

In questo caso l’ansia in questo particolare disturbo d’ansia sembra quasi “anestetizzare” la persona dalla sensazione dolorosa, mentre in altri la sensibilità aumenta.

Tuttavia non sempre si possono trarre conclusioni di tipo causale quando si presenta una correlazione, e potrebbero intervenire, oltre al dolore e all’ansia, anche ulteriori variabili.

Il dolore è un’esperienza complessa che non si può limitare all’aspetto fisico delle stimolazioni nocicettive, essendo determinato anche da un versante psicologico, emotivo e motivazionale.”

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Quali sono i fattori cognitivi e psicologici coinvolti nel processo?

“L’aspettativa – spiega Anna Cantagallo – è un fattore cognitivo che svolge un ruolo rilevante nella percezione nocicettiva.

Avere la certezza che sta per accadere qualcosa di potenzialmente pericoloso o avversivo porta a provare inevitabilmente paura, che come conseguenza comportamentale può avere o una risposta di attacco o una di fuga dell’organismo, o  qualsiasi azione, anche mentale, che possa “proteggere” dalla minaccia imminente.

Essere incerti riguardo allo svolgersi di un determinato evento, provoca ansia invece che paura, andando ad attivare l’individuo sia da un punto di vista di arousal fisiologico che mentale.

Un’altra funzione cognitiva implicata nella mediazione delle sensazioni dolorose è l’attenzione.

Eccleston e Crombez, nel 1999, trassero evidenze rispetto alla capacità in situazioni ansiogene di distogliere l’attenzione dalla fonte del dolore, distraendo l’individuo. In uno studio del 2002, James e Hardadottir dimostrarono un’interazione tra focus attentivo  e tratti ansiosi, e come questa attenzione  influenzi la tolleranza soggettiva al dolore.

Sembra che sia proprio l’orientamento e l’intensità dell’attenzione a influenzare la percezione nocicettiva: ma questo vale solo fino ad un certo livello di dolore, oltre il quale il fenomeno del distogliere l’attenzione diventa disfunzionale.”

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E le basi neurali?

“Uno studio di Ploghaus e colleghi del 2001 utilizza la risonanza magnetica funzionale per indagare le risposte di attivazione a stimoli nocicettivi di natura termica.

La percezione del dolore varia per intensità fisica e per intensità dell’ansia provata.

Essi hanno osservato differenze tra le risposte della corteccia entorinale dell’ippocampo a stimoli caratterizzati dallo stesso grado di intensità fisica, ma diversi per quanto riguarda la capacità dell’ansia di aumentare o meno la percezione di intensità del dolore.

Questi risultati portano a sostenere l’ipotesi secondo la quale in situazioni di forte ansia l’ippocampo aumenta l’intensità di percezione degli stimoli avversivi, inducendo quindi a mettere in atto comportamenti adattivi in caso di bisogno.

È solamente mettendo in allarme l’individuo e aumentando talvolta la sua sofferenza che egli può imparare a evitare situazioni potenzialmente nocive.

Gli stati d’ansia, dunque, sembrano avere una vera e propria valenza evolutiva e di tutela dell’organismo da potenziali danni, ed è proprio per questo che a volte è necessario che l’individuo diventi più sensibile al dolore quando diventa forte e cronico, piuttosto che sopravvivere sopportando all’infinito il dolore stesso.” Termina Anna Cantagallo.

Ansia – può aumentare la percezione del dolore. Riducendo l’ansia riusciamo anche a ridurre il dolore?

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Ansia, trattarla con la Terapia Cognitivo Comportamentale nella demenza: è possibile?

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Ansia, trattarla con la Terapia Cognitivo Comportamentale nella demenza: è possibile?

Ansia, in particolare quella dovuta alla perdita di contatto con la realtà che genera disorientamento, è molto comune nel paziente con demenza.

Inoltre, ci racconta Anna Cantagallo, di frequente questi sintomi si traducono in veri e propri disturbi d’ansia clinicamente significativi.

La demenza con il passare degli anni sta aumentando sempre più la propria incidenza; Prince e i suoi colleghi stimano nel 2017 un numero di circa 65.7 milioni persone affette fino al 2030.

Questo vertiginoso aumento della diffusione della demenza ha permesso di elaborare metodologie per effettuare diagnosi più precoci e tecniche di intervento psicosociali, come la terapia cognitivo comportamentale (CBT), che vanno oltre alla semplice somministrazione di farmaci.

Ansia, trattarla con la Terapia Cognitivo Comportamentale nella demenza: è possibile?

Qual è lo scopo degli approcci psicosociali e quale la loro efficacia?

“Gli interventi di tipo psicosociale – spiega Anna Cantagallo – mirano al supporto non solo della persona con demenza ma anche della sua famiglia, senza limitarsi alla cura sintomatologica tramite i farmaci.

Questi approcci hanno come obiettivo primario quello di raggiungere, in un quadro degenerativo di malattia, un benessere soggettivo da parte del paziente.

Dennison e Moss-Morris in uno studio del 2010 hanno dimostrato la validità di trattamenti psicoterapeutici che aiutano ad elaborare il rallentamento delle funzioni cognitive e la depressione che ne deriva.

Nel caso specifico dell’Alzheimer, si sono dimostrati promettenti tre tipi di intervento: la riabilitazione cognitiva, la terapia della reminiscenza e la terapia cognitivo comportamentale.

Fondamentale affiancare a questi trattamenti un coinvolgimento attivo del caregiver, sia per il suo benessere psicosociale che per quello del paziente.”

Ansia, trattarla con la Terapia Cognitivo Comportamentale nella demenza: è possibile?

Che ruolo assume l’ansia nella persona con demenza?

“I pazienti con demenza si sentono disorientati, confusi e vulnerabili e questo conduce inevitabilmente a provare ansia quotidianamente.

Essi riferiscono di sperimentare sintomi ansiosi soprattutto in risposta alle reazioni degli altri alla loro diagnosi di demenza, per la paura di assistere ad un deterioramento delle proprie funzioni cognitive, e per il timore di perdere la propria indipendenza diventando un peso per i familiari che se ne prendono cura.

L’ansia, nel quadro patologico della persona con demenza, diventa un fattore esacerbante con effetto peggiorativo sulle manifestazioni del declino cognitivo. I farmaci tipicamente usati per curare l’ansia hanno dei limiti, e presentano spesso dei pesanti effetti collaterali.”

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Con cosa si può sostituire la terapia farmacologica?

“La terapia cognitivo comportamentale – racconta Anna Cantagallo – risulta essere particolarmente efficace per trattare l’ansia nel caso della demenza e nella popolazione adulta e anziana generale.

Charleswort e i suoi colleghi nel 2015 effettuano uno studio in cui viene proposto un approccio CBT basato sulla triade cognitiva di Beck che prevede tre credenze disfunzionali tipiche del disturbo di ansia generalizzato: la vulnerabilità del sé, il caos del mondo, e l’incertezza del futuro.

In base a questo modello si propone un trattamento che mira a ridurre l’ansia riducendo comportamenti disfunzionali e di mantenimento dell’ansia, come gli evitamenti, e aumentando il senso di autoefficacia.

Affinché i pazienti con demenza possano essere idonei a questo tipo di terapia devono avere una serie di requisiti, ovvero: vivere in casa, possedere un livello di gravità di diagnosi lieve-moderato, e sperimentare ansia clinicamente significativa.

Il programma terapeutico si divide in tre fasi disposte in circa 10 sedute: 1) socializzazione al modello e condivisione degli obiettivi 2) processi di cambiamento per raggiungere lo scopo 3) condivisione delle strategie pratiche per mantenere le abilità acquisite generalizzandole alla vita quotidiana.”

Ansia, trattarla con la Terapia Cognitivo Comportamentale nella demenza: è possibile?

Ci sono fasi o aspetti del trattamento su cui rivolgere particolare attenzione nella persona con demenza?

“Prima di iniziare un lavoro cognitivo è opportuno verificare con accuratezza il grado di capacità del paziente di accedere ai pensieri automatici e di saper identificare le proprie cognizioni ed emozioni dandogli un significato.

conclude Anna Cantagallo – Non sempre  i pazienti sanno attribuire i propri deficit a problemi di memoria o a sintomi ansiosi, capacità fondamentale per sfruttare al meglio la terapia e osservare dei cambiamenti rilevanti e positivi.

Il ruolo del caregiver è fondamentale, in quanto deve aiutare il paziente a generalizzare quanto appreso in fase di trattamento alla vita quotidiana. Inoltre il caregiver serve a colmare le lacune di conoscenza del paziente quando si manifestano vuoti di memoria relativi a determinati vissuti che possono essere utili alla terapia.

Un altro punto di particolare importanza è riconoscere e ridimensionare eventuali aspettative eccessive e irrealistiche, tenendo sempre ben presente che lo scopo del trattamento non è quello di migliorare la memoria, ma di tenere sotto controllo l’ansia che deriva dai deficit cognitivi, cosa che permette di gestire meglio gli stessi e di migliorare il benessere generale.”

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Ansia, trattarla con la Terapia Cognitivo Comportamentale nella demenza: è possibile?

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